Bunnydrums «Pkd» [2011]
Bunnydrums
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Titolo:
Pkd
Nazione:
U.s.a.
Formazione:
David Goerk - Vocals, Synth, Guitar, Saxophone
Frank Marr - Guitar, Trombone
Greg Davis - Bass, Guitar, Synth, Backing-vocals
Joe Ankenbrand - Drums, Percussions
Genere:
Durata:
41' 0"
Formato:
CD
2011
Etichetta:
Distribuzione:
---
Agenzia di Promozione:
---
Recensione
Trent’anni e non sentirli. Esce nel 1980 il debut PKD degli americani Bunnydrums, e tutt’oggi (grazie a delle eccellenti riedizioni dei lavori della band, ormai introvabili) è in grado di colpirci, di graffiare il nostro udito con un sound unico e maligno, e di lasciarci inermi davanti alla sua originalità, magari facendoci riflettere su di una band che avrebbe potuto dare tanto, e che forse a suo tempo non è stata semplicemente capita.
Una musica, quella dei Nostri, in grado di dare ben più di un grattacapo ai fanatici della divisione in sottogeneri: chiamatela post-punk, post-rock, qualsiasi cosa purché “post”, oltre. Oltre la maggior parte della musica sperimentale dei primi anni ottanta, talmente oltre da quasi anticipare quello che sarebbe venuto negli anni a seguire, dal rock elettronico allo stoner. Un disco concepito con un piede nella scena post-punk inglese (quella dei Public Image Ltd. tanto per capirci) e uno nella più libera sperimentazione, chiamando in causa un comparto ritmico articolatissimo, riff psichedelici e tempi lenti e progressivi. Concludono gli ingredienti della proposta del gruppo di Philadelphia incursioni schizofreniche di ottoni e delle mai esagerate iniezioni di synth. Il tutto va a creare un suono denso e ipnotico, che quando non accarezza l’orecchio, lo trapana senza pietà, complice della voce versatile del cantante e fondatore David Goerk, che passa con disinvoltura dal cantato a guaiti sgraziati. Quello che manca ormai completamente nella musica dei Bunnydrums rispetto ai suoi predecessori anglosassoni è la spensieratezza del punk, soppiantata da una rappresentazione a tratti opprimente, a tratti sognante di una realtà urbana grigia e smorta, filtrata da una sensibilità squisitamente psichedelica.
Il disco scorre fluido, come un unico piacevole trip, anche se è costellato da continui leggeri cambi d’umore, che conducono dalle melodie elettroniche e stranianti dell’opener Smithson, alle atmosfere cariche d’elettricità di Magazine, passando addirittura per dei curiosi episodi di rockabilly “andato a male” in Shiver, o in Little Room.
Certo un disco non perfetto, minato com’è purtroppo da una certa freddezza di fondo, e dal suo voler essere volutamente sgraziato, a tratti fastidioso, il che rischia di rendere il prodotto indigesto ai non addetti ai lavori, e di relegarlo ad un pubblico di soli appassionati del genere.
In sostanza è un disco che mi sento vivamente di consigliare a chi nel rock cerca sorprese e atmosfera, a patto di volersi immergere in una musica che, quasi incurante di noi ascoltatori, cerca spesso e volentieri la cacofonia.
Track by Track
- Smithson 70
- Magazine 75
- Crawl 75
- Shiver 75
- Sleeping 70
- Little room 75
- Ugh 65
- Stop 70
- Too Much Time 80
- Too Much Time (remix) 75
Giudizio Confezione
- Qualità Audio: 75
- Qualità Artwork: 80
- Originalità: 80
- Tecnica: 80
Giudizio Finale
75Recensione di Zoro pubblicata il --. Articolo letto 772 volte.
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